Il trauma psicologico e il corpo: il trattamento

La storia dei disturbi traumatici, ci mostra una tardiva individuazione terapeutica integrata, ma ancor prima anche una tardiva individuazione diagnostica. Infatti il primo passaggio terapeutico è costituito dall’adeguato riconoscimento diagnostico. I Veterani del Vietnam ne sono un esempio, hanno subito un riconoscimento tardivo del trauma, quale origine dei quadri sintomatici complessi, da cui etichette ed interventi inefficaci, che hanno cronicizzato oltre modo i sintomi.

Stessa confusione e misconoscimento diagnostico si è verificato per altri tipi di vittime, erroneamente catalogate con le più disparate categorie psichiatriche. La definizione ed il riconoscimento del Disturbo da Stress Post Traumatico – DPTS (DSM 5), ha permesso alle vittime un riconoscimento ed un approccio più adeguato alle loro necessità e ha fornito dignità alla loro condizione.

Progressivamente è accresciuta l’attenzione e la sensibilità verso varie forme di esperienza traumatica, quali l’abuso nell’infanzia, il neglect, la violenza sessuale, il terrorismo, la deportazione, la vittimizzazione da catastrofi naturali, forme più invisibili quali la perdita di un genitore per omicidio da parte dell’altro genitore, la violenza domestica, le relazioni perverse (relazioni asimmetriche, stalking, bullismo, mobbing), il trauma da diagnosi nefasta, l’ospedalizzazione “traumatica” (reparto chiuso, anestesia cosciente, trapianto d’organi, ecc.).

L’esperienza clinica poi ci ha suggerito la necessità di una differenziazione, in base ai tipi di trauma, sia in termini oggettivi che soggettivi, in termini di continuatività, di natura causale (di tipo umano/non umano), di contesto, periodo evolutivo e fattori protettivi. Ne emerge una descrizione del quadro sintomatico e del vissuto soggettivo molto più articolato e complesso di quanto descritto nel DPTS, costituito da elementi di autodenigrazione, autosvalutazione, sensi di colpa, atti impulsivi, aggressività, amnesia, atti autolesivi ecc., delineando così quello che viene definito un Disturbo da Stress Post-traumatico Complesso (Emerson, 2015, pp. 16-19; ICD 11, 2018).

Parallelamente la ricerca e la clinica hanno lavorato nell’individuazione di strategie e terapie (farmacologiche, psicologiche, rieducative) più appropriate per intervenire su un quadro somatico, emotivo, esperienziale e cognitivo assai complesso (Van der Kolk, 2015).

Negli anni si sono sperimentate varie forme di intervento, combinazione farmacologica (antidepressivi, stabilizzatori dell’umore, ansiolitici, benzodiazepine, antipsicotici) con terapie dell’area psico-sociale (psicoterapia individuale, di gruppo, gruppi di veterani, gruppi di auto-mutuo aiuto, volontariato, rieducazione specifica ecc.), ricovero, ospedalizzazione prolungata.

Attualmente le forme di intervento che sembrano incidere in modo più significativo sono rappresentate da interventi specifici sul ricordo traumatico come l’EMDR, la terapia verbale, le terapie corporee e l’ausilio variabile di farmaci (Van der Kolk, 2015).

Le terapie corporee impiegate includono la bioenergetica (Lowen), il metodo Alexander (Alexander, 1998: Gray 1994), il metodo Feldenkrais (2011), il metodo Hakomi (2015), la terapia sensomotoria (Ogden e Fischer, 2016) ecc., tutte forme utili per lavorare sul corpo e sui traumi “in-corporati”, “in-carnati”.

Il corpo ci suggerisce che il trauma non è passato neanche quando è passato (Ogden et al., 2013, p. 11). Il corpo non mente e traduce una corretta visione della propria biografia.

Se i fattori ambientali possono essere descritti come “un’erosione” continua, i traumi non elaborati, incidono con l’effetto di una valanga, alterando in modo significativo la struttura somatica, cerebrale, cognitiva, comportamentale, emotiva e relazionale.

Il lavoro con le componenti NV (non verbali) permette di recuperare il “corpo”, la percezione somatica, sensoriale, il giusto peso emotivo, di dare accesso al trauma e alla successiva integrazione delle parti separate e disconnesse.

Lo yoga o altre forme di terapie corporee, unite ad esercizi immaginativi, meditazione o training autogeno, costituiscono spesso la porta d’accesso per la cura dei pazienti traumatizzati, in uno stato di dissociazione (De Zulueta, 2015; Emerson, 2015; Van der Kolk, 2015; West, et al., 2017). Si parte proprio da dove il trauma è passato, dai primi effetti e dai mezzi necessari per mantenere attive le difese, il senso di ovattamento e distacco emotivo: il corpo e le sue rigidità.

Lo yoga si concentra sul respiro e sullo scioglimento di rigidità corporee, allenta lo stato di allerta, migliora il ritmo sonno-veglia, riduce l’ansia e l’irrequietezza motoria. Questo primo lavoro permette la riduzione delle difese e delle rigidità corporee collegate. La vergogna stessa è relata al corpo, al mostrarsi, all’immagine di sé. Se la vittima di violenza riesce a coabitare con il proprio corpo, con ogni parte di esso e delle sue sensazioni, allora può anche provare a mostrarsi nel suo esterno e nel suo interno.

Varie ricerche dimostrano che lo Yoga utilizzato per disturbi quali ansia, depressione, disturbi alimentari, iperattività, schizofrenia, produce variazioni biochimiche e fisiologiche: modulazione dell’arousal, attivazione del GABA, decremento di cortisolo e catecolamine (alla base delle reazioni di stress) (Rocha et al, 2012; Sarang e Telles, 2006; Streeter et al., 2010).

Ancora più nello specifico, altre ricerche, con l’ausilio della neuroimaging, hanno verificato che dopo 20 settimane di pratica yoga, le donne cronicamente traumatizzate sviluppano una maggiore attivazione di strutture cerebrali implicate nell’autoregolazione quali l’insula e la corteccia prefrontale mediale (Van der Kolk, 2015, pp. 112-113).

Con 10 sedute di TSY, ovvero la Trauma Sensitive Yoga (Vand der Kolk et al. 2014), le pazienti traumatizzate, non rispondenti alle terapie tradizionali cominciavano a mostrare una riduzione dei segni dissociativi, un atteggiamento meno critico verso di sé, una maggiore connessione con emozioni e migliori relazioni interpersonali, compresa la relazione terapeutica. Dai risultati, l’effetto del TSY uguaglia o supera quello della terapia cognitivo-comportamentale.

Dalle verifiche strumentali, si è inoltre osservato che lo Yoga riattiva l’area prefrontale mediale sinistra e l’area di Broca (responsabile di gran parte delle funzioni linguistiche deputate ad esprime l’emotività), disattivate in seguito al trauma (Emerson, 2015, p. 22-23).

Negli adulti multi traumatizzati l’impiego della sola psicoterapia o solo della mindfulness non sono sufficienti a produrre cambiamenti, riscontrabili invece con l’intervento anche di terapie corporee quali lo Yoga (West et al., 2017, p. 174).

Lo Yoga, come altri interventi di tipo psico-corporei, non sono da considerarsi un sostituto della psicoterapia bensì un’integrazione, in quanto permette la combinazione fra un approccio bottom up e top down, fondamentale per riunire le parti dissociate (Emerson, 2015; Brendom et al., 2018).

I processi bottom up e top down sono le due vie attraverso cui valutiamo se un evento è pericoloso o meno, il primo, guidato dal cervello rettiliano, procede attraverso decisioni inconsapevoli e automatiche, il secondo, guidato dalla corteccia prefrontale, procede grazie ad una serie di valutazioni coscienti. Durante le situazioni traumatiche, altamente pericolose, i due sistemi, corteccia e sotto-corteccia, si scollegano a sfavore delle funzioni più evolute, prevalendo un’attività del sistema sottocorticale, più veloce e connesso con le reazioni di sopravvivenza.

Il respiro ed alcune posture sembrano essere gli unici elementi gestibili da parte di entrambe le funzioni e in quanto tali assumono il valore di mediatori di cura, fra le aree corticali e sottocorticali (Van der Kolk, 2015, pp.72-73).

La presenza nel qui e ora, l’attenzione al corpo e alle percezioni somatiche, la concentrazione sul respiro, la natura ritmica dello stesso, costituiscono strumenti di contatto con sé, con le proprie sensazioni, di riduzione di tensione e arousal (West, 2015).

Rispetto ad altre tecniche di tipo corporeo, il TSY non si occupa delle emozioni, dei pensieri o dei ricordi elicitati dal movimento, ma unicamente dell’intracezione, della percezione corporea (Emerson, 2015, pp- 10-14). A livello teorico si appoggia alle Teoria sul Trauma, alle ricerche mediate dalla Neuroscienza e alla Teoria dell’Attaccamento (Bowlby, 1978, 1983; Ainsworth, 1979).

Rispetto all’Hata Yoga, ovvero allo yoga tradizionale, il TSY non lavora sulle posizioni o àsana, non fornisce indicazioni e procedure per raggiungere la posizione finale, bensì suggerisce, se la persona “se la sente”, di sperimentare alcune posture. Inoltre, per motivi legati al trauma stesso, non lavora con il respiro come procede l’Hata Yoga. Dall’esperienza di Emerson e della sua equipe infatti, in certi casi questo costituisce una riattivazione traumatica. Ad es. i veterani di guerra, durante gli esercizi volti ad una respirazione più profonda, possono rivivere gli episodi traumatici, il respiro costituisce un trigger relativo al fuoco in battaglia. Parimenti, certe posizioni, quali quella del “bebè felice” diventano un trigger per le vittime di stupro, o di abuso infantile (Emerson, 2015, p. 4-7).

Le parole stesse sono calibrate con estrema attenzione, per esempio viene evitata la parola “Posizione”, classicamente usata nello yoga, in quanto attivante per le persone sessualmente abusate, preferendo il termine “Forma”, emotivamente più neutro.

L’importanza fornita alla volontà, disponibilità e percezione di “sentirsi pronti” ad eseguire una certa forma, costituisce un passaggio importante. Spesso le vittime di traumi non sanno cosa vogliono, non sono collegate con il proprio sentire, e formulare loro la domanda apre ad una possibilità e ad un “permesso” emotivo-cognitivo: il poter scegliere.

Seppur muovendo da analoghi principi teorici, parzialmente differente è la Terapia Sensomotoria di Ogden (Ogden et al. 2013; Ogden et al. 2016). Al contrario del TSY, qui vengono impiegate e integrate tecniche di stampo corporeo con altre di stampo verbale. Ogden infatti parte dall’analisi dei tre livelli di elaborazione dell’informazione, reciprocamente influenzanti:
  1. l’elaborazione cognitiva
  2. l’elaborazione emotiva
  3. l’elaborazione senso-motoria
La capacità cognitiva si riferisce all’abilità di concettualizzare, ragionare, attribuire significati, risolvere problemi e prendere decisioni. Si tratta della modalità prevalente dell’adulto, che procede con modalità top-down, dove le aree corticali più alte agiscono come un centro di controllo e la corteccia orbitale domina l’attività subcorticale. Mentre eseguiamo i nostri piani, spesso ignoriamo emozioni e sensazioni, che sono presenti ma non vengono tenute in conto per le decisioni. Emozioni e sensazioni ci sono e influenzano il pensiero, ma le aree corticali superiori sono in grado di mantenere il controllo e, se necessario, di fornire un senso.

Ratey (2002) sostiene che i neuroni motori possono guidare il senso di auto-consapevolezza, infatti i circuiti mentali usati per le azioni fisiche sono gli stessi delle azioni mentali. Il modo in cui pensiamo e ciò che pensiamo dunque sono modellati dal corpo e viceversa.

Per il soggetto traumatizzato le emozioni e le sensazioni sono così primari da non poter dare spazio ai meccanismi top-down, i vissuti emotivi e senso-corporei spesso generano distorsioni cognitive e pensieri irrazionali “Sono cattivo”, “E’ colpa mia”, “Sono stato giustamente punito” ecc., rigidi e difficilmente modificabili, che a loro volta influenzano emozioni e percezioni.

L’emozione ci aiuta ad agire in maniera adattiva, in quanto piattaforma pre-motoria, che ci guida o ci trattiene dall’azione.

Le persone traumatizzate perdono questa capacità, soffrendo spesso di alessitimia, ovvero dell’incapacità di riconoscere e definire le emozioni. Nei confronti dei propri stati emotivi possono essere distaccati e disinteressati o, all’inverso, possono viverli come urgenti ed immediati. Nei ricordi non verbali degli eventi traumatici, viene riattualizzato il tenore emotivo che, in uno stato di arousal critico, può condurre ad azioni impulsive ed inefficaci. Si perde la capacità di pensare in modo lucido, di tradurre le emozioni e differenziare le emozioni dalle sensazioni corporee.

L’elaborazione emotiva adeguata infatti, prevede la capacità di sperimentare, descrivere, esprimere ed integrare gli stati affettivi.

L’elaborazione sensomotoria si articola nello strutturare l’esperienza, articolare e integrare la percezione fisica/sensoriale, le sensazioni corporee, l’arousal fisiologico ed il funzionamento motorio. Nei disturbi traumatici la disregolazione crea confusione e sovrapposizione fra emozioni e sensazioni corporee, che si attivano e accentuano a vicenda, come per esempio per la tachicardia ed il panico.

Nei bambini molto piccoli e nei soggetti con disturbo traumatico l’elaborazione è di tipo bottom-up, ovvero sensomotoria, guidata dalle percezioni tattili e cinestesiche, condotte dagli strati sottocorticali. Coincide con ciò che Piaget (1966) ha individuato come prima forma di intelligenza nel bambino piccolo, che esplora e conosce l’ambiente. Gli schemi motori circolari primari e secondari ripetuti, creano quelli terziari, prodromi del pensiero.

Nella pratica clinica la Terapia Sensomotoria procede con l’elaborazione di tre aspetti sensomotori: le sensazioni corporee interne (qualunque mutazione organica, dovuta ad aspetti ormonali, chimici, muscolari, ecc.), la percezione attraverso i cinque sensi ed il movimento.

La terapia sensomotoria mira a ridurre l’arousal, permettere di identificare, distinguere gli elementi sensomotori, le emozioni e fornire loro un adeguato significato. Infatti l’identificazione delle percezioni sensoriali-organiche modifica il modo in cui sono vissute e interpretate, influendo a sua volta sui connotati emotivi.

La terapia integra il trattamento top-down, che utilizza gli strati superiori, con trattamenti bottom-up, mira a raggiungere la percezione e la consapevolezza di quanto avviene nella persona ad ogni livello (sensoriale, emotivo, cognitivo) nel momento del ricordo dell’evento traumatico. Si usano l’esplorazione consapevole di ogni evento sensomotorio, l’attivazione di un atteggiamento/clima giocoso, il cambiamento di tendenze di orientamento (la direzione dell’attenzione rivolta al qui e ora), l’attenzione al transfert somatico e relativo controtrasfert ecc.

Favorire la capacità integrativa richiede la differenziazione e il collegamento delle componenti separate dell’esperienza interna e degli eventi esterni, tale da creare una connessione significativa.

Sono stati pensati e articolati interventi specifici anche per i bambini con trauma complesso, che richiedono ulteriori e specifiche attenzioni. La specificità infatti deve tener conto della fase evolutiva, della non completa maturità di alcuni strumenti e funzioni, della ridotta capacità espressiva del proprio mondo interno attraverso il canale verbale, della presenza di caregiver di riferimento che sono parte del sistema, talvolta loro stessi vittime, talvolta attuatori di violenza, ma strumento di cura, portatori di risorse e coping, talvolta al contrario limitatori delle stesse e fonti di stress.

Da non dimenticare, inoltre, i limiti degli interventi adottati per gli adulti. Ad esempio alcune ricerche mettono in luce la mancata efficacia dell’EMDR nei bambini con alcuni tipi di trauma complesso (Kazatzias T., 2007).

Paris Goodyear-Brown in Tennessee, USA (2019; 2021) ad esempio ha strutturato la Narture House, un luogo dedicato esclusivamente ai bambini e ai loro familiari. Una casa-clinica interamente dedicata al trattamento dei bambini con trauma, con spazi interni ed esterni dedicati a specifiche attività.

Il primo spazio è rappresentato da una stanza dei bisogni, tranquilla dove talvolta i bambini possono rifocillarsi, attraverso il riposo o semplicemente a livello alimentare. I bisogni primari costituiscono necessariamente il primo livello e talvolta bambini traumatizzati e/o appartenenti a ceti socio-culturali bassi, sono deprivati innanzitutto in questi bisogni fondamentali.

Conclusioni
La storia degli eventi traumatici, del loro misconoscimento, dei progressi nella loro individuazione, dei fallimenti e delle conquiste terapeutiche, sottolineano l’importanza di questo lavoro di continuità e integrazione fra vari strumenti conoscitivi e clinici, all’interno di un approccio specifico e “sensibilizzato” al trauma.

Nella pratica personale si è sperimentato e si continua a sperimentare in modo permanente attività mirate e rivolte al corpo, che comprendono sia aspetti mediati dalla corteccia top-down che altri mediati da aree sottocorticali bottom-up.

Si tratta di un lavoro che attinge a riflessioni e tecniche del TSY, della terapia sensomotoria e ad altre (bioenergetica, hata yoga, shatsu, arteterapia, esercizi gestaltici ecc.). Seppur si tratti di un lavoro non corroborato da studi strumentali e misurabili scientificamente, nell’esperienza quotidiana l’integrazione di terapia verbale e non verbale, in dose diversa in base alle singole persone e in base al setting, individuale/gruppo, rappresenta uno strumento d’elezione in svariati tipi di disturbo: disturbi alimentari, d’ansia, psicosomatici, traumi semplici e complessi.

Il trauma è una realtà umana dolorosa, che spaventa, che spesso misconosciamo, ma offre anche un accesso importante alla conoscenza dell’essere umano e all’incontro con i vari livelli di noi stessi e degli altri, con gli strati più primitivi, istintivi, aggressivi, violenti, con il giudizio e la negazione.

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