La Compassion Focused Therapy (CFT; Gilbert 2007a, 2010) è un approccio riconducibile alle cosiddette terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione, secondo le quali il cambiamento del paziente non è il risultato della sola modifica delle sue credenze patogene e disfunzionali ma anche e soprattutto della capacità di porsi nei confronti delle proprie manifestazioni psicopatologiche con un atteggiamento basato sull’accettazione.
Poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, il ricercatore Harry Harlow e lo psichiatra infantile John Bowlby iniziarono a studiare l’impatto delle relazioni sociali e di accudimento sulla salute mentale sia del bambino sia di cuccioli di specie animali evolutivamente vicine alla nostra. Grazie alle loro ricerche, e ai più recenti studi afferenti all’ambito delle neuroscienze sociali, si è compreso come i nostri cervelli siano biologicamente predisposti a rispondere ai comportamenti di cura, gentilezza e attenzione da parte degli altri.
Ma l’affetto e il calore umano sembrano essere basilari per la salute dell’individuo non solo durante le prime fasi dello sviluppo, bensì in tutti i differenti momenti della nostra vita (Cozolino 2007), ‘dalla culla alla tomba’ come direbbe Bowlby (1982).
Anche in psicoterapia è sempre più condivisa l’idea che qualità come la gentilezza, l’empatia e l’accettazione di sé e dell’altro costituiscano un fattore attivo di cambiamento del paziente e non rappresentino soltanto aspetti di contorno all’interno della relazione terapeutica.
La nascita della Compassion Focused Therapy
Tra i primi a riflettere sull’importanza di questi fattori e a cercarne una valorizzazione nel percorso psicoterapeutico troviamo sicuramente Carl Rogers (1961) con la terapia centrata sul cliente. Egli riteneva che la considerazione positiva, l’autenticità̀ e l’empatia costituissero gli aspetti nucleari della relazione terapeutica e che dovessero essere considerati pertanto come agenti attivi del miglioramento sintomatologico dei pazienti.
Una più recente espressione di questa visione è la Compassion Focused Therapy (CFT; Gilbert 2007a, 2010), un approccio riconducibile alle cosiddette terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione, secondo le quali il cambiamento del paziente non è il risultato della sola modifica delle sue credenze patogene e disfunzionali ma anche e soprattutto della capacità di porsi nei confronti delle proprie manifestazioni psicopatologiche con un atteggiamento basato sull’accettazione.
Sviluppata da Paul Gilbert, professore alla University of Derby, nei primi anni 2000, la Compassion Focused Therapy nasce dall’incontro tra terapia cognitivo-comportamentale, teoria dell’attaccamento e neuroscienze sociali. Questo approccio offre una concettualizzazione della psicopatologia e del suo mantenimento basata sull’ipotesi che nel nostro cervello esistano alcuni sistemi di regolazione emotiva la cui attivazione in maniera sbilanciata sarebbe causa della nostra sofferenza. Tali sistemi sarebbero responsabili delle emozioni che comunicano il soddisfacimento o la frustrazione dei bisogni di base. Secondo Gilbert, quindi, il processo di cambiamento si basa sulla modulazione di sistemi motivazionali e affettivi, connessi all’attaccamento e al caregiving, la cui attivazione garantirebbe un cambiamento nel paziente che spesso non è raggiungibile solo attraverso un intervento diretto sulle sue credenze disfunzionali.
È interessante esaminare come alcune delle principali tecniche della CFT possano favorire il processo di accettazione in psicoterapia, un elemento che di recente si è dimostrato di primaria importanza nel trattamento di vari disturbi psicopatologici e nella prevenzione delle ricadute (Ruiz 2010).
Per accettazione si intende ‘l’assunzione di consapevolezza che un certo scopo sia definitivamente compromesso’ (Perdighe e Mancini 2010). Grazie ad essa la persona ha modo di non sprecare risorse verso uno scopo ormai irraggiungibile e di investire le proprie energie nell’ottenimento di un obiettivo più realistico.
Da un punto di vista cognitivo, l’accettazione consente la modificazione delle credenze che sostengono l’investimento di uno scopo nel momento in cui questo si rivela irrimediabilmente compromesso. Vanno considerati come scopi compromessi non soltanto le perdite come nel caso di lutti o malattie fisiche gravi, ma anche il mancato ottenimento di condizioni sentite come desiderate. Accettare che uno scopo sia compromesso o a rischio di compromissione implica la modificazione di credenze che riguardano il potere, il diritto, il dovere e la convenienza di ottenere qualcosa che desideriamo o evitare la sua compromissione.
La Compassion Focused Therapy agisce anche sulla dimensione fisiologica attivando dei cambiamenti soprattutto legati all’aumento della concentrazione plasmatica del neuropeptide ossitocina (Zak 2012). L’ossitocina interviene nell’inibizione delle regioni cerebrali che si attivano in condizioni associate alla paura (asse ipotalamo-ipofisi-surrene) ed è inoltre direttamente coinvolta in una serie di importanti funzioni fisiologiche e psicologiche centrali nella promozione di comportamenti pro-sociali (come altruismo, generosità ed empatia) che ci portano ad essere più propensi a fidarci degli altri e che sembrano connessi al processo di accettazione per come descritto nelle caratteristiche di cui sopra.
A chi si rivolge la Compassion Focused Therapy?
La CFT era originariamente nata per pazienti depressi che mostravano forte autocritica e sentimenti di vergogna nei confronti dei propri stati affettivi negativi. Gilbert aveva rilevato come questi pazienti fossero particolarmente resistenti ai classici interventi di ristrutturazione cognitiva sulle loro credenze disfunzionali e, per quanto fossero capaci di seguire e applicare gli esercizi cognitivi e comportamentali, raramente beneficiavano della terapia nel suo complesso. Questa tipologia di pazienti, anche se accettava di focalizzarsi su interpretazioni alternative più favorevoli degli eventi che li turbavano o delle caratteristiche personali indesiderate, non riusciva tuttavia a percepirle come convincenti da un punto di vista emotivo, e faticava dunque ad abbandonare la sensazione nucleare di indegnità ed isolamento che li caratterizzava. In particolare, Gilbert si rese conto che una delle maggiori difficoltà di questi pazienti era la capacità di generare pensieri connotati da calore e gentilezza rispetto a sé e agli altri. Essi tendevano a mantenere uno stato mentale autocritico incolpandosi per la loro condizione e un modo di parlare di se stessi iper-analitico, freddo e colpevolizzante, atteggiamento che non faceva altro che incrementare il proprio stato di sofferenza.
Sulla base di queste osservazioni, Gilbert introdusse nella sua pratica clinica suggerimenti diretti sul modo di ‘dirsi le cose’ che fosse maggiormente improntato alla gentilezza, al calore e all’auto-validazione. Inizialmente, quindi, si limitava ad incoraggiare i suoi pazienti ad immaginare una voce calda e gentile che suggerisse loro pensieri alternativi o che li assistesse nei compiti comportamentali.
Attualmente la CFT è utilizzata nel trattamento non solo della depressione, ma anche per la cura di altri disturbi dell’umore, del Disturbo da Stress Post Traumatico, delle psicosi, dei disturbi alimentari e del dolore cronico. Come Gilbert stesso ammette, le ricerche di validazione dell’efficacia sono ancora troppo poche, ma promettenti; questo ci fa sperare nella possibilità che tale approccio possa trovare sempre maggiore spazio e applicazione all’interno delle stanze di terapia.
I sistemi di regolazione affettiva
Alla base della Compassion Focused Therapy vi è l’ipotesi evoluzionista che nel cervello umano esistano almeno tre sistemi cerebrali sottesi alla regolazione affettiva, responsabili dei diversi tipi di emozioni che regolano e ‘guidano’ il raggiungimento dei nostri scopi biosociali (social mentalities).
Nella concettualizzazione di Gilbert questo è un sistema a sé stante: le sue proprietà calmanti si sono sviluppate in concomitanza allo sviluppo delle motivazioni all’attaccamento e all’accudimento e a quei cambiamenti nel sistema nervoso che hanno reso possibile la vicinanza fisica, l’affiliazione e l’interesse per l’accudimento della prole.
Nella CFT (Gilbert 2009a) le esperienze infantili di accudimento disfunzionale (abusi nella sfera emozionale e fisica, neglect, alta emotività espressa, forte critica genitoriale, accudimento distanziante e privo di calore) hanno reso più funzionale, per quel tipo di pazienti descritti prima, il mantenersi continuamente in uno stato di allerta, iper-sviluppando il sistema di protezione della minaccia (espresso tramite il comportamento auto-critico) e ipo-sviluppando il soothing system.
In linea del tutto semplificativa, una carente stimolazione del soothing system durante i primi anni di vita o la sua attivazione condizionata in modo avversivo (ad esempio: figure di attaccamento capaci di dare affetto e calore, ma che hanno anche perpetrato abusi nei confronti del soggetto) hanno portato al quadro sintomatologico che caratterizza questi pazienti fortemente auto-invalidanti, autocritici, tendenti all’auto-accusa e con forti sensazioni di vergogna.
Disattivare il threat system e attivare il soothing system
Alla luce di questo, Gilbert propone che la difficoltà di questo tipo di pazienti di lasciarsi calmare e tranquillizzare dalle interpretazioni alternative (ad esempio della loro amabilità), non sia dovuta alla semplice incapacità di ‘reclutare dati’ a favore di queste ma, congiuntamente, all’iper-attivazione del threat system (con il suo tipico stile decisionale better safe than sorry) e all’incapacità di ‘accendere’ il soothing system, responsabile di quelle emozioni di rassicurazione e accettazione di sé che i dati sulla propria amabilità cercherebbero di generare.
Per far si che le ipotesi alternative benevole siano davvero in grado di rassicurare il paziente è necessario che il sistema calmante sia dapprima riattivato e che possa quindi recepire e lasciarsi stimolare da stimoli esterni ‘tranquillizzanti’. Da qui si spiegano le tipiche difficoltà che questi pazienti hanno con la TC standard (Rector et al. 2000) e nasce la proposta di Gilbert di promuovere il cambiamento attraverso uno specifico training (il compassionate mind training, CMT) che possa insegnare a riattivare volontariamente il proprio soothing system e a disporre delle naturali capacità di regolazione che questo sistema ha nei confronti degli altri due.
Il training, che racchiude tutte le tecniche di intervento della CFT, è da considerarsi come una sorta di psico-fisioterapia (Gilbert 2005a, 2010).
Secondo la CFT, i cues a cui risponde il soothing system sarebbero segnali di affetto, gentilezza, calore e accettazione negli scambi interpersonali, essendo un sistema di regolazione connesso all’attaccamento e all’accudimento. È interessante osservare come questi cues abbiano la capacità di attivare il soothing system sia quando vengono rilevati nell’ambiente (persone che sono compassionevoli, accudenti e attente a noi), sia quando siamo noi stessi ad emetterli verso gli altri e verso di noi.
Da qui il focus sulla compassione: un’emozione che si attiva in risposta a segnali di sofferenza degli altri ed è accompagnata da un intenso desiderio di alleviarli. Secondo moderne concettualizzazioni, la compassione deriva dall’attivazione del sistema di accudimento, ma non è esclusiva dei rapporti parentali e può nascere anche in relazione a segnali di malessere dei nostri conspecifici (Goetz et al. 2010). Mentre la pena scaturisce dall’appraisal di inferiorità della persona che soffre e che desideriamo aiutare, nella compassione vi è un’implicita condivisione della condizione che predispone l’altro a soffrire.
Nel training della CFT il target primario è la riduzione dell’autocritica, considerata un meccanismo di difesa da un ambiente percepito imprevedibile e minaccioso (Gilbert 2007a, 2009a; Gilbert e Irons 2005). Attaccare se stessi per qualcosa che hanno fatto gli altri o di cui ci stanno deprivando garantirebbe, secondo Gilbert, la sensazione di avere un locus of control interno rispetto a ciò che sta accadendo e manterrebbe così intatta la credenza della modificabilità di una situazione avversa quando non si riesce, di fatto, ad accettarne l’immodificabilità.
Inoltre, l’autocritica si configura come un meccanismo di mantenimento della sintomatologia connessa all’iper-attivazione del threat system, trasversale a differenti psicopatologie: l’invalidazione del proprio stato emotivo, il disprezzo verso sé stessi, la vergogna e il senso di indegnità si manifestano, di fatto, con un dialogo interiore che continuamente svaluta, denigra e commenta in tono sprezzante e freddo le esperienze del soggetto.
Questo stile di self-talk stimola, a livello endogeno, il threat system aumentando le manifestazioni emotive e cognitive che spesso, a loro volta, diventano oggetto di ulteriore autocritica (ad esempio, il paziente depresso in preda a ruminazioni auto-ostili che hanno come oggetto la propria inutilità e che non fanno altro che causare un’ulteriore deflessione dell’umore).
Quindi, uno dei compiti del terapeuta nella CFT è far comprendere al paziente le origini e le funzioni della sua attitudine auto-critica e allo stesso tempo il vantaggio di sviluppare e assumere un atteggiamento gentile verso se stesso proprio al fine di favorire il cambiamento terapeutico e la riduzione della sintomatologia.
Come ‘imparare’ la compassione?
Per raggiungere questo scopo la Compassion Focused Therapy utilizza un insieme di interventi in gran parte ripresi dalla tradizione meditativa di origine buddista, che si incentra molto sul generare stati di compassione verso se stessi e gli altri e ‘sull’esporsi’ alla compassione altrui. Secondo questa tradizione, la compassione avrebbe il potere di trasformare la mente (Dalai Lama, 1995) riferendosi, plausibilmente, all’insieme di cambiamenti nello stile attentivo e di ragionamento che si verifica una volta che si attiva deliberatamente questo specifico assetto motivazionale.
Immaginazioni guidate, meditazioni mindfulness, respiro calmante, scrittura di lettere compassionevoli, ragionamento compassionevole sono solo alcuni esempi delle tecniche che possiamo ritrovare in un trattamento orientato alla Compassion Focused Therapy. Ciascuna tecnica è utilizzata in modo flessibile in base al focus terapeutico, a seconda che si voglia dare compassione a se stessi, agli altri o ricevere compassione. Contemporaneamente, il paziente viene guidato nello sviluppo di nuove abilità di risposta al proprio atteggiamento di autocritica che, come detto, attiva il sistema di protezione dalla minaccia impedendone la disattivazione.
In generale, la prima fase del trattamento orientato alla CFT prevede la condivisione con il paziente del modello e delle modalità di funzionamento dei sistemi motivazionali e di regolazione emotiva. Successivamente vengono introdotti esercizi di consapevolezza corporea (es. respiro calmante) volti a preparare il paziente all’utilizzo di tecniche immaginative che hanno lo scopo di aiutarlo a sviluppare una rappresentazione più compassionevole di sé.
Secondo la CFT la compassione si può insegnare e si può apprendere. Il Compassionate Mind Training è stato dunque pensato proprio come un vero e proprio training, che insegna ai pazienti a esercitare le seguenti competenze:
In conclusione, la Compassion Focused Therapy si basa su caratteristiche del funzionamento umano naturalmente insite dentro di noi e dunque potenzialmente utilizzabili e valorizzabili in tutti i modelli di psicoterapia, conferendo a questo approccio una natura trasversale.
Riteniamo che inserire all’interno del lavoro terapeutico interventi volti a promuovere atteggiamenti di gentilezza, compassione e accettazione possa essere estremamente arricchente per qualsiasi tipo di paziente, facilitando il suo progredire nel (duro) percorso di cambiamento nel quale lo stiamo accompagnando.
Non dimentichiamo che sperimentare un senso di pace e sicurezza rappresenta uno dei bisogni fondamentali dell’individuo, senza la soddisfazione di questo bisogno non è possibile l’esplorazione nè tantomeno il cambiamento. Questo dunque è forse uno degli insegnamenti più preziosi della Compassion Focused Therapy, insieme all’idea che dovremmo essere noi stessi a farci artefici di questo senso di sicurezza, imparando a mostrare un po’ più di accettazione nei nostri confronti, verso ciò che proviamo e a dimostrarci più compassionevoli e meno critici.. insomma a volerci un po’ più bene, così come siamo!
Bibliografia